Il nostro ultimo giorno inizia con un cielo grigio ed un immensa tristezza, questa nazione già mi manca ed ancora non sono andato via.
Come ultima tappa del viaggio, oltre a mangiare enormi quantità di cibo, andremo al museo ghibli, un luogo mistico per un appassionato di lungometraggi di animazione Giapponese. Chiaramente prendere il biglietto non è stato semplice, l’abbiamo acquistato direttamente dall’Italia tramite un agenzia che li vende online, perché non è possibile arrivare alla biglietteria e comprarne uno.
Quando entriamo in un negozio e Simona deve chiedere qualcosa, continua ancora a pronunciare mi scusi, nonostante i 20 giorni passati qui, non gli entra in testa che non capiscono l’Italiano. Io tutte le volte scoppio a ridere.
Non è proprio semplice comunicare qui, anche se si conosce l’inglese, ho chiesto il binario del treno ad uno dei tanti addetti che popolano le stazioni e lui mi ha risposto una parola incomprensibile.
Suonava più o meno “tueburu”, qualcosa che per me in inglese era assolutamente incomprensibile, quando gli ho chiesto di ripeterlo per la quarta volta, mi sono accorto che il suo tono si è leggermente alterato.
Di sicuro avrà pensato, ma come, non capisci questa semplice parola in inglese?
A quel punto ho ringraziato e sono andato via, cercando la risposta alla domanda direttamente sul tabellone luminoso, dove mi si è palesata la soluzione, quella parola significava twelve in inglese ma era pronunciata così male da risultare incomprensibile.
Nella confusione della folla, un bambino e rimasto bloccato nella metro mentre la mamma urlava disperata dalla banchina, con una calma incredibili, ho visto il bambino prendere dallo zaino il suo cellulare e chiamare la mamma, poi si è avvicinato alla porta ed è sceso alla fermata successiva in attesa che la madre tornasse a prenderlo. Era talmente piccolo che non credo sapesse leggere ma è riuscito lo stesso a comportarsi da adulto e fare la cosa giusta senza creare problemi a nessuno.
Il Museo Ghibli è un posto fantastico, sembra di vivere in un mondo magico sospeso al di fuori della realtà, l’edificio ricorda moltissimo lo stile Guadiano, ci sono ambienti dalla forma improbabile, legni che seguono curve impossibili e vetri colorati.
E’ pieno i bambini ma anche di molti adulti nostalgici come noi che restano a bocca aperta ad ogni angolo del museo.
Si comincia con una sezione dove è possibile visualizzare i macchinari utilizzati per le prime animazioni, proiettando a mano fotogrammi in sequenza su visori si riescono a vedere scene dei vecchi film della Ghibli.
In una sala al piano superiore i bambini giocano in una riproduzione a dimensioni reali del gatto trasformato in autobus, saltano felici in quell’enorme peluche e devo trattenere Simona dal lanciarsi nella mischia perché è vietato agli adulti.
Uscendo all’aperto invece rimaniamo tutti colpiti dalla statua del robot di Laputa, dove ci mettiamo in fila per una foto ricordo.
In alcune stanze c’è lo studio dove
Miyazaki disegnava le proprie opere, non so se sia una riproduzione o solo una riproduzione museale ma è fantastico, appesi al muro ci sono centinaia delle sue tavole in bianco e nero ed a colori ed in ogni angolo ci sono riproduzioni degli strani apparecchi che compaiono nei suoi film. C’è la sua scrivania, i proiettori ed anche una libreria piena delle sue opere cartacee, poi si passa allo shop dove difficilmente riuscirete ad uscire senza aver comprato qualche gadget.
Io mi sono riportato i romanzi brevi di alcune sue opere come quella di Totoro, sono scritti in giapponese e forse non riuscirò mai a leggerli ma è comunque un bel ricordo da avere a casa nella nostra libreria.
La visita al museo si conclude con la visione in un piccolo teatro fantastico di un cortometraggio della ghibli, molto animato e poco parlato, fruibile anche da chi non capisce una parola di giapponese, che vi assicuro non vi lascerà indifferenti.
Prima di tornare ci fermiamo in una piccola trattoria di Mitaka per pranzo, è un ambiente molto giapponese, scuro e separato in scompartimenti tramite dei corridoi di legno ormai scurito e levigato dal tempo. Molte zone sono rivestite da una moquette rosso scurissimo, e tutti i tavoli, le sedie e gli sgabelli bassi sono rigorosamente in legno scuro, quasi nero.
Non c’è l’ombra di un turista nemmeno a pagarlo, sono tutti anziani signori giapponesi quelli che stanno consumando il proprio pasti, sembra che lo facciano con estrema lentezza mentre chiacchierano e fumano sigarette eterne, non hanno fretta di tornare a lavoro perché forse non esistono davvero.
I disegni sul menù ci tolgono dall’imbarazzo di dover spiegare ad una cameriera che parla solo il giapponese cosa vogliamo ordinare. Riusciamo ad prendere degli Zaru Soba, gli spaghetti di grano saraceno freddi, una ciotola di riso in bianco ed una zuppa di miso.
Anche le ciotole sono scure e laccate con alcuni disegni in oro sbiaditi, sono logore come tutto l’ambiente ma per questo donano una grande tranquillità, sembra quasi di non vivere nel presente.
Gli Zaru Soba sono buonissimi, cerchiamo di mangiarli con calma per prolungare la nostra presenza in questo luogo mistico ma ad un certo punto ci rendiamo conto che il tempo sta scorrendo lo stesso e quindi ritorniamo verso Tokyo perché Simona ha deciso di passare il pomeriggio a Shibuya.
Shibuya è la solita gran confusione di persone che si muovono in tutte le direzioni come formiche impazzite in un grande formicaio di strade.
Sul calar della sera pian piano il sole sparisce dietro ai grattacieli e tutto si illumina di luci al led delle insegne luminose e dei maxi schermi super colorati che si fanno notare sulle facciate dei palazzi. Non ho ben capito di cosa siamo in cerca e forse non l’ha capito nemmeno Simona, la scusa per stare qui è che dobbiamo fare le ultime compere prima di partire ma in realtà credo ci stia prendendo una strana malinconia che non ci permette più di organizzare la nostra giornata ma ci spinge a girare senza meta cercando di immagazzinare emozioni utili quando saremo lontani.
Entriamo in tutti i supermercati e portiamo via, bustine di tè verde in polvere, caramelle, dolcetti confezionati e vari snack che saranno il nostro conforto durante la lunga estate lontano da qui.
Per non farci mancare niente ci infiliamo in un bar superaffollato dove abbiamo deciso di prendere una di quelle mega coppe gelato che spiccano nella versione in cera in vetrina.
Cerco di scegliere una non troppo grande con gelato al tè verde crema di vaniglia e fagioli Azuki ma non ne sono troppo soddisfatto, ho provato molti altri gelati più gustosi qui in Giappone.
Dopo aver preso altri regali e gettato un bel po’ di soldi negli
ufo catcher che ormai sono diventati una specie di droga, decidiamo di dedicarci una cena speciale, sarebbe un peccato andare via senza aggiungere un nuovo fantastico ricordo, così decidiamo di andare a mangiare nella catena di ristoranti che cucinano solo il granchio.
Credo ce ne siano molti sparsi in tutto il Giappone, perché ne ho già visti altri ad Osaka ed in altri quartieri di Tokyo.
Comunque è facile riconoscerli perché hanno sempre un’insegna con un bel granchio imperiale gigante che spesso si muove.
Ne nostro caso si trova al quarto piano di un palazzo e ci si direttamente appena si aprono le porte dell’ascensore. Abbiamo avuto modo di studiare bene i prezzi ed i menù nella hall del palazzo al piano terra, quindi siamo preparati a spendere un po’ di più.
Ci sono infatti menù che partono dai 3.500Yen a persona per arrivare fino ad alcune da 7.900 Yen e più. Noi ci teniamo nel mezzo, scegliendo due menù da circa 4.7000 Yen che al cambio del momento sono più o meno 38€.
All’ingresso due gentili signore in kimono ci accolgono all’ombra di un enorme acquario pieno i granchi un tantino compressi.
Subito ci chiedono di togliere le scarpe e ci danno degli zoccoletti in legno con i quali è possibile muoverci nel ristorante, poi ci accompagnano al nostro tavolo, in un ambiente separato da tutti gli altri con il tavolo basso ed il buco per infilare le gambe.
Prendiamo posizione e ci portano subito il menù illustrato sul quale scegliere la cena, poi lo portano via e ci porgono gli asciugamani caldi bagnati per pulire le mani.
Per un tempo che mi è sembrato lunghissimo ci servono qualsiasi cosa a base di granchio, sashimi di chele di granchio, granchio fritto, granchio bollito, granchio a zuppa, granchio su ciotola di riso, Tenpura di chele di granchio, polpa di granchio.
Perdiamo almeno un paio d’ore a pulire e mangiare granchi dalle loro corazze mentre sorseggiamo te verde caldo e birra gelida, poi come gran finale ci servono un gelato.
Ormai eravamo convinti che sarebbe stato al gusto di granchio ma per qualche strano motivo era al tè Matcha.
Pieni di granchio fino a scoppiare, abbiamo pagato il conto e siamo tornati alla cassa a riprendere le nostre scarpe e ringraziare i granchi nella loro teca per averci nutriti ed estasiati, poi siamo entrati in ascensore e siamo ritornati nelle strade illuminate di una Tokyo che sembrava sempre più un sogno che svanisce, quasi trasparente e lontana da non poterla più toccare ed assaporare.
Ci siamo detti pochissime parole nel viaggio di ritorno in albergo, è stato un lungo e sordo silenzio in cui ci eravamo persi. osservavo le luci della città scorrere dai finestrini della metro e mi sentivo profondamente svuotato, violentato, privato di un sogno che per qualche giorno mi aveva reso felice e vivo.
Le persone salivano e scendevano alle fermate della metro ma io ero lontano, non le mettevo più a fuoco, sembravano ormai delle ombre che passavano davanti a miei occhi indifferenti. Anche il tragitto verso l’albergo è stato vuoto e freddo, un camminare automaticamente verso una meta che non vorresti mai raggiungere, imprigionato in pensieri nostalgici.
Non ricordo nemmeno se c’è stata un’ultima visita al Conbini, un dolcetto da banco serale, un bagno caldo in camera, tutto quello che ricordo è che ho guardato fuori dalla finestra e mi sentivo come se mi stessero strappando una parte di cuore.
Sono le 2:00 di notte, l’ultima in questa città che non avrei voluto più lasciare. Domani un aereo mi riporterà a Roma e riprenderò la vita di sempre, chissà per quanto ancora, la solita e noiosa routine.
Me ne sto di nuovo qui, seduto alla finestra ed osservo la notte più buia di Tokyo, la Sky Tree illumina il cielo con le sue luci rotanti e si pavoneggia con la sua altezza su tutta la città.
Per 20 giorni sono stato davvero felice, ogni angolo di strada, ogni treno preso, ogni tempio trovato anche per caso, ogni piatto nuovo che ho provato, ogni sguardo della gente, ogni sorriso di ragazze sconosciute mi hanno lasciato qualcosa dentro che non posso dimenticare.
Come quando un bambino va alle giostre per la prima volta, così mi sono sentito guardando i palazzi colorati di Shibuja, i grattacieli a Shinjuku, le vecchie strade di Ueno, le ragazze vestite da cameriera di Akihabara, i templi di Nikko e Kyoto, i cervi di Nara, le case con i tetti di paglia a Shirakawa-go e tutto quanto di speciale ho scoperto in questo viaggio.
Il più grande sogno di tutta la mia vita era venire a vivere in Giappone ed averlo per un po’ sfiorato con le dita, renderà ancora più difficile accettare il fatto di essere stato sconfitto.
Come uno stupido ci ho sperato in un miracolo, in un occasione che mi desse la possibilità di cambiare la mia vita e farmi restare qui, ma da adulti ci ritroviamo irrimediabilmente a capire che la vita quasi mai ci mette sulla strada che vogliamo.
Dal canto nostro, possiamo provare a non arrenderci ed io non voglio farlo, almeno per ora continuerò a pregare e sperare di realizzare il sogno di poter un giorno venire a vivere in questa terra straordinaria.
Ora che ho intravisto una vita diversa ed una società veramente civile, come potrei rassegnarmi a vivere altrove?